Sabato scorso è stato messo in vendita il tanto atteso modello Moonwatch di Swatch x Omega, ennesima collaborazione tra lusso e mass market ideata con l’obiettivo di rendere accessibile un orologio dal DNA peculiare ed elitario.

Se la collaborazione non ci sorprende molto, essendo entrambi i brand proprietà della The Swatch Group, quello che ci incuriosisce è sicuramente il motivo da parte di Omega nell’aderire a questa partnership, considerando la strategia usata nel gestire il lancio della collezione, presumibilmente realizzata per creare hype, e l’individuazione di un profitto (in termine d’immagine) rispetto al suo mercato e a quanto accaduto negli store.

Nonostante non fosse stata annunciata dal brand come una limited edition – ma intesa da tutti come tale – abbiamo assistito a scene di assembramenti fuori dai negozi, ticket improvvisati per mettersi in fila, polizia appostata per richiamare all’ordine (e al rispetto delle regole anti-Covid). Tutto ciò nel contesto d’isteria collettiva che fa abitualmente da sfondo al controverso mondo delle “collabo”, dove i fautori del reselling sgomitano per accaparrarsi i prodotti nel maggior numero possibile (quando è concesso dal venditore), col solo scopo di rivenderli a cifre irragionevoli su siti come Ebay, Stock X, Flight Club ecc.

Ma nel caso di Omega è opportuno chiedersi quale sia il tornaconto nell’operare in un mercato (il mass market) così lontano dalla sua solita clientela, con target e disponibilità economiche completamente diversi. Il rischio che non si guardi più al marchio come a un leader nel settore dell’orologeria di lusso, e che si verifichi così una sorta di erosione del valore della marca, è piuttosto concreto. Anche perché i giovani compratori non riusciranno probabilmente ad identificarsi in un prodotto così distante dal loro comportamento di acquisto.

In un periodo in cui tutti i top brand puntano a diventare sempre più esclusivi (basti pensare al vertiginoso aumento dei prezzi delle it bag odierne), Omega decide di andare nel verso opposto, scostandosi da un mercato – il suo – che fa dell’esclusività il suo fondamento, proponendo un prodotto che per le sue componenti sembra risultare quasi un “tarocco”, una copia fantomatica di un modello originale.

Una strategia differente, invece, l’ha adottata Audemars Piguet l’anno scorso, quando realizzò una limited edition con Marvel, puntando su collezionisti “luxury-nerd” affascinati da una narrativa completamente pop e alternativa, disposti a pagare cifre altissime per ottenere uno dei pochissimi esemplari prodotti, unici per la loro qualità e originalità.

L’impressione generale è che per molti brand, come in questa occasione, la situazione stia velocemente sfuggendo di mano: oggi per assurdo è la collaborazione ad essere diventata un vero e proprio trend, una gara a realizzare la capsule collection più cool ed inusuale, in un continuo riproporsi di collezioni che perdono così una solida narrazione, contenuti coerenti tra loro e la saltuarietà che rende le limited edition tali.

L’ulteriore conseguenza? L’inevitabile svalutazione dell’immagine di prodotto, oggettificato per definizione, e in alcuni casi del brand stesso, entrambi privati di qualsiasi valore intrinseco e di uno storytelling coerente. Il rischio dietro l’angolo è quello di incappare in partnership senza un apparente senso logico e ideate solo per creare scalpore tra i tanti compratori compulsivi, indebolendo sempre di più la credibilità e la storicità dei marchi.

Che questa di Swatch x Omega, nelle prossime settimane, venga dichiarata come una limited edition oppure no è ancora da comprendere, ma in ogni caso rimane il dubbio che talvolta due realtà così vicine per interessi aziendali possano poi risultare distanti e incompatibili nella riuscita di progetto condiviso.